True Stories
True
Stories di David Byrne, oltre che a incarnare in modo trasparente
la vera essenza del Byrne-pensiero, si delinea come un vero e proprio
studio sul dibattito architettonico che ha animato soprattutto gli Stati
Uniti per tutti gli anni Ottanta e offre varie indicazioni all’esplorazione
dei punti di contatto tra media e teoria dell’architettura, tra
studi sulla cultura popolare e urbanistica, specialmente in relazione
alle possibilità di una lettura complessiva e globale dello spazio
urbano contemporaneo.
Il film racconta le avventure quotidiane e ordinarie degli abitanti
di un’immaginaria cittadina del Texas, Virgil, al momento dei
festeggiamenti per l’anniversario dei 150 anni dalla fondazione.
Lo stile adottato è molto personale: alterna le forme del documentario,
dell’inchiesta televisiva e del racconto “classico”
cinematografico, il tutto sottolineato da un’incredibile colonna
sonora, un campionamento, tra il beffardo e il malinconico, di tutti
gli stilemi della musica popolare americana.
I personaggi vengono mostrati in concomitanza agli ambienti fisici in
cui si trovano a vivere e c’è come uno scambio osmotico
tra costruzioni e comportamenti, come se questi si modellassero gli
uni sugli altri: li vediamo a lavoro in fabbrica, a divertirsi e a parlare
in discoteca, a fare shopping e conoscenze nel centro commerciale e
nelle strade . La sezione finale del film, programmaticamente intitolata
"Architecture", comprende un singolare elenco delle abitazioni
individuali, periferiche o centrali, tradizionali o moderne, come quelle
in metallo leggero messe su dagli stessi cittadini, che realizzano così
il sogno degli architetti modernisti di costruire strutture funzionali
a basso costo. Sembra che il regista voglia sottolineare l'abbandono
della funzione tradizionale dell'architetto come creatore unico di edifici
e piani urbanistici e il conseguente passaggio del linguaggio dell'architettura
stessa da un'impostazione concettuale e imposta a priori a una concezione
semiotica e contingente, ovvero basata sul proprio potenziale comunicativo.
Byrne quindi, con il fare dell’antropologo culturale che caratterizza
tutta la sua produzione artistica, imposta il film sullo scontro fra
spazio recentrato e spazio decentrato, come conseguenza dell’esplosione
postmoderna delle tensioni tra spazio rurale e spazio urbano, tra cultura
popolare (folk) e cultura di massa (pop) e prova a tracciare un’estetica
dell’immaginario contemporaneo che analizzi le assenze, i vuoti
derivati da questa situazione, insieme alle varie strategie impiegate
dalla popolazione per sviluppare un senso, anche se provvisorio e superficiale,
di identità e di comunità. Così è leggibile
la fluttuazione tonale che caratterizza il film, quella costante e continua
alternanza tra partecipazione e straniamento sia da parte del regista
cha da parte degli immaginari abitanti dell’immaginaria cittadina,
necessaria proprio per esprimere un terreno culturale sempre mobile
e incerto. True Stories rappresenta effettivamente una città
immaginaria e “ideale”, così da includere la possibilità
del discorso utopico, ma un discorso utopico come rimodellazione della
vita ordinaria in città assolutamente reali e specifiche: essa
esiste nei sogni e nei pensieri della gente comune e si realizza sulla
base della loro stessa quotidianità, in un paesaggio urbano volto
necessariamente al consumo di massa e al cattivo gusto, risultato della
circolazione indiscriminata di merci e di significati. Un film assolutamente
da vedere, per entrare nella disarmante e profonda semplicità
del fantomatico american way of life...
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